IL TEMPO. IT – 25/09/2015 06:07
«Simona Riso poteva vivere»
Al processo il perito della Procura inchioda i due sanitari del San Giovanni Furono loro a soccorrere in ospedale la giovane che aveva tentato il suicidio
C’era solo un «3%» di possibilità che Simona Riso – la 28enne calabrese suicidatasi il 30 ottobre 2013 lanciandosi da una palazzina di via Urbisaglia – potesse morire. Invece gli eventi, all’ospedale San Giovanni di Roma, sono precipitati. Interventi medici sbagliati hanno consentito che la semplice «insufficienza respiratoria instauratasi» divenisse «irreversibile». Le conclusioni sono del professor Giorgio Bolino, consulente tecnico della Procura capitolina, ieri ascoltato come teste al processo. Alla sbarra degli imputati ci sono i dottori Raimondo Grossi, all’epoca dei fatti in forze al pronto soccorso, e Anna Francesca Bandiera, ginecologa, accusati di omicidio colposo. Per l’accusa, Grossi pur sapendo delle gravi lesioni che si era provocata Simona per la caduta, avrebbe preferito dare precedenza a controlli ginecologici, in quanto la ragazza aveva riferito ai medici del 118 che prima di essersi lanciata aveva subito una violenza sessuale. Bandiera, invece, avrebbe sottovalutato i sintomi dovuti alla caduta, ritenendoli una reazione psicosomatica.
L’ACCUSA
Secondo il capo d’imputazione i due medici, «con condotte colpose tra di loro indipendente», avrebbero cagionato «la morte della Riso». In particolare, il dottor Grossi, «ometteva di prescrivere con urgenza gli accertamenti strumentali volti ad appurare la sussistenza di lesioni traumatiche, inspiegabilmente rinviandoli alla visita ginecologica finalizzata ad accertare la violenza sessuale riferita dalla giovane al persona del 118». La Bandiera, invece, «ometteva di prestare la dovuta attenzione ai segni clinici che pure venivano descritti in cartella, sottovalutandoli e ritenendoli semplice reazione psicosomatica all’evento traumatico».
«POTEVA SALVARSI AL 97%»
Stando al consulente della Procura ci sarebbe stata negligenza nei medici. «La ragazza poteva salvarsi al 97%», ha chiarito. Il professor Bolino ha analizzato le attività dei due medici in modo distinto: «Se il dottore Grossi avesse agito in maniera conforme ai dettami della scienza medica in tema di medicina d’urgenza, avrebbe potuto diagnosticare lo pneumotorace evitando lo sviluppo di complicanze. Tale diagnosi ha una prognosi altamente benigna e quindi, a seguito del tempestivo trattamento terapeutico, il decesso di Simona Riso non si sarebbe verificato». Sulla dottoressa Bandiera ha spiegato che se «avesse prestato, così come doveva, attenzione alla sintomatologia insorta nella paziente che aveva di fronte e l’avesse congruamente diagnosticata e trattata già subito dopo l’inizio della visita ginecologica, stante anche l’assenza di ulteriori fattori negativi sulla progressione del quadro clinico, la possibilità di decesso sarebbe stata inferiore al 3%. Tale affermazione di certo risente del fattore tempo, nel senso che il procrastinarsi della diagnosi e del relativo trattamento ha fatto sì che l’insufficienza respiratoria instauratasi sia divenuta irreversibile così come nei fatti verificatosi».
«IL BUCO TEMPORALE»
«Era un paziente in codice rosso – spiega il difensore di parte civile, l’avvocato Sebastiano Russo – ma Simona non è stata sottoposta ad alcun tipo di esame presso il pronto soccorso, indispensabile per accertare le condizioni di salute. Ma è ancor più sconcertante – aggiunge – la circostanza emersa in fase di istruttoria, relativa al fatto che, in ben due occasioni, stando a quanto appreso attraverso la documentazione del pronto soccorso, non è stato possibile chiarire dove sia stata collocata la ragazza mentre era affidata alle cure dei medici: ed infatti vi sono due buchi temporali, uno che va dalle 7:30 alle 8:15 della mattina del 30 ottobre 2013, un altro invece dalle 8:45 alle 9:30, orario quest’ultimo durante il quale si colloca temporalmente il tentativo del tutto inutile di rianimare la paziente, ormai presumibilmente priva di vita».
LA DIFESA
Sulla deposizione del consulente della Procura è intervenuta Anna Scifoni, avvocato della ginecologa. «Ben 3 cattedratici della sapienza hanno sconfessato il dato fornito dal consulente del pm, escludendo completamente la responsabilità dei medici nel caso della dottoressa Bandiera. La stessa è stata chiamata ad una verifica ginecologica specialistica ed ha svolto il proprio compito in costanza di tutti i parametri vitali della paziente, esistenti sia al momento della presa in carico che al momento della restituzione in pronto soccorso».