Un militare dell’esercito in servizio da oltre trent’anni si è ritrovato tutto d’un tratto destinatario di una denuncia per il reato di diserzione aggravata.
Va premesso che il reato di diserzione, al comma secondo dell’art. 148 del c.p.m.p., punisce il militare che dopo un periodo di legittima assenza, senza giusto motivo, non si presenti al proprio reparto nei 5 giorni successivi a quello previsto per il suo rientro.
Ebbene, la vicenda, sicuramente singolare, trae origine dalla decisione dell’Esercito di denunciare il militare dipendente che, non solo non aveva “fatto perdere le proprie tracce” come ipotizzato, ma che, contrariamente a quanto contestato attraverso il capo di imputazione, era invece rimasto sempre a disposizione del proprio Comando in attesa di poter rientrare al reparto.
Non di meno, il militare si è comunque ritrovato indagato sebbene in realtà la sua intenzione fosse proprio quella di riprendere al più presto il servizio.
In sintesi, il militare in questione è stato destinatario di un provvedimento di sospensione dal servizio poiché nel mese di dicembre del 2021 aveva deciso di non sottoporsi all’obbligo vaccinale.
Da ciò è quindi scaturito, conseguentemente, il provvedimento di sospensione dal servizio, peraltro senza alcuna retribuzione.
E’ accaduto che durante il periodo di sospensione egli abbia compiuto un viaggio all’estero, nel corso del quale ha contratto il Covid, dal quale fortunatamente guarito all’esito di un breve periodo di convalescenza.
Rientrato in Italia ha immediatamente rappresentato e documentato la circostanza (l’aver contratto il virus) che a quel punto gli consentiva di poter riprendere il servizio dal quale precedentemente sospeso.
Tuttavia, a fronte della volontà del militare di far rientro al proprio reparto, ciò non è stato possibile nell’immediato; tale impossibilità di riprendere in tempi rapidi il proprio servizio è dipesa dall’allora necessità di ottenere dalla Asl di zona il necessario “Green Pass”, ottenuto il quale ha poi dovuto trascorrere un nuovo lasso di tempo in attesa del rilascio del previsto nulla osta del medico militare come imposto dalle disposizioni dell’epoca, disposizioni (è bene precisare) impartite dal proprio comando di appartenenza.
Ebbene, ciò che ha dell’incredibile è che una volta fatto rientro in servizio il militare sia stato destinatario di un avviso di garanzia attraverso il quale ha appreso di essere stato indagato dalla Procura Militare di Napoli appunto per l’ipotesi di diserzione.
Nel caso di specie l’A.G. ha contestato al militare che dalla data del suo rientro in Italia alla data di ripresa del servizio (circa una quindicina di giorni) il militare doveva ritenersi assente ingiustificato dal servizio (nonostante peraltro una domanda di licenza ordinaria prima concessa poi revocata).
Del tutto comprensibile a qual punto si potrà immaginare lo stupore in uno con il timore che una simile contestazione (che per inciso in caso di condanna avrebbe potuto comportare finanche la rimozione per perdita del grado) ha suscitato in quello che fino a quel momento era ritenuto un militare dall’ineccepibile stato di servizio.
Ad ogni modo, gli elementi raccolti nel corso delle indagini difensive hanno potuto dimostrare come il comando di appartenenza, contrariamente a quanto rappresentato all’A.G. in sede di informativa di reato, fosse in realtà perfettamente a conoscenza del fatto che il militare in questione non si era affatto rifiutato di rientrare in servizio o avesse fatto perdere le sue tracce; al contrario gli elementi raccolti hanno potuto svelare come, nel periodo contestato di diserzione, il militare si fosse sempre attenuto alle indicazioni impartite dai propri diretti superiori, con i quali (è bene evidenziare tale aspetto) è emerso fosse rimasto sempre costantemente in contatto; ecco perché non si capisce per quale ragione, nonostante l’assoluta assenza di una condotta neppure astrattamente sussumibile a quella ipotizzata, si sia comunque deciso di denunciare il Caporal Maggiore per un reato di diserzione che si sapeva non essere mai accaduto.
Ciò che altresì le indagini difensive compiute hanno messo in risalto è la circostanza in particolare di come il militare, pur volendo, non avrebbe neppure potuto commettere una simile condotta delittuosa posto che, una volta rappresentata la circostanza della propria guarigione dal Covid, fu lui stesso a chiedere di poter rientrare in servizio (richiesta non accoltà poiché temporaneamente inidoneo).
Sia consentito rilevare come non è certo possibile rinvenire alcuna condotta neppur astrattamente rilevante sotto il profilo penale posto che fu il comando di appartenenza ad impedire la possibilità di riprendere il servizio in assenza della previa visita di idoneità da parte del dirigente sanitario, visita, per inciso, alla quale il militare si è sottoposto come da ordine impartito dal proprio diretto superiore.
Lo scenario che è emerso (sia dalle fonti dichiarative che documentali acquisite nel corso delle indagini) ha in sostanza svelato un quadro alquanto surreale: da una parte l’amministrazione di appartenenza che ebbe a porre il veto al rientro in servizio richiesto dal militare in assenza della prevista idoneità; dall’altra l’amministrazione (che quel rientro aveva impedito) che del tutto incomprensibilmente deferisce all’A.G. il proprio militare per il reato (affatto sussistente) di diserzione (tra l’altro ben conscia del fatto che il Caporale Maggiore per tutto il tempo che ha atteso di poter riprendere servizio era sempre rimasto in contatto con il proprio comando).
Quello che ancor più desta clamore è che (come si evince dalle indagini compiute) la circostanza della presenza del militare presso il luogo di residenza non poteva in ogni caso non essere a conoscenza del proprio reparto, come dimostrano le convergenti fonti di prova acquisite; ci si riferisce alla dichiarazione testimoniale della moglie del militare, come pure ai tabulati telefonici attestanti le telefonate intercorse nel periodo oggetto di contestazione con il reparto di appartenenza, per non parlare degli screenshot della messaggistica WhatsApp a più riprese inviate sempre all’amministrazione dell’Esercito.
A ciò è possibile aggiungere, se non bastasse, le numerose dichiarazioni di tutti i militari che in quei giorni ebbero contatti con il collega, ben consci del fatto che non si fosse affatto dileguato nel nulla ma agevolmente reperibile presso la propria abitazione, in attesa, come premesso, dell’autorizzazione a poter rientrare in servizio non appena possibile.
Ebbene, all’esito delle indagini svolte, la Procura Militare di Napoli dunque non ha potuto che avanzare una quanto mai perentoria richiesta di archiviazione per la più che evidente assenza di elementi di prova che potessero sostenere una tale improbabile accusa in giudizio, richiesta di archiviazione accolta dal G.I.P. che di recente ha messo fine a questa singolare vicenda depositando il relativo decreto di archiviazione.