Si conclude, finalmente, in Cassazione, con una sentenza di annullamento, senza rinvio, “perché il fatto non sussiste”, dopo una condanna in primo grado confermata anche in appello, la spiacevole vicenda che ha visto suo malgrado coinvolto un militare del Corpo della Guardia di Finanza, accusato ingiustamente di un reato mai commesso.

 

 

Il Finanziere Scelto, ex “basco verde”, rispettato militare con alle spalle oltre venti anni di onorata carriera, era stato accusato dal proprio superiore del reato di ubriachezza in servizio (previsto e punito dall’art. 139 del C.P.M.P.) ed in seguito, per questo motivo, rimosso dal proprio impiego, dopo essere stato dichiarato dalla CMO “permanentemente non idoneo al servizio in modo assoluto”   e dunque “da collocare in congedo anch’esso assoluto”.

La rimozione dall’incarico, conseguenza di quello che con il senno di poi potremmo forse definire un malsano quanto affrettato desiderio di “giustizia”, è intervenuta senza attendere una pronuncia definitiva: ed infatti, neppure a distanza di pochi mesi dalla sentenza del Tribunale Militare di primo grado, (dunque antecedentemente a quella che ci si sarebbe aspettati essere una qualsivoglia pronuncia di condanna che potesse dirsi irrevocabile) l’amministrazione militare, a cui appartenente il dipendente, ha pensato bene che tanto fosse sufficiente per decretare la fine del rapporto professionale.

Ebbene, come premesso, a distanza di oltre tre anni – dall’inizio di questa spiacevole vicenda giudiziaria – si è però pronunciata la Suprema Corte di Cassazione sul ricorso interposto dal militare, ribaltando la conformità di entrambe i giudizi di merito (Tribunale Militare e Corte di Appello militare), ed affermando, senza ombra di dubbio ma soprattutto questa volta definitivamente, l’innocenza del militare, attesa l’assoluta assenza del raggiungimento della prova dell’elemento c.d. oggettivo del reato.

La singolarità del caso, e non stiamo certo parlando di un episodio purtroppo isolato, risiede nel fatto che il provvedimento d’inidoneità al servizio (da cui per intenderci è poi discesa la risoluzione del rapporto di impiego), non risulta essere stato adottato all’esito di un procedimento che abbia definitivamente accertato la sua responsabilità, ma ben prima di esso.

In altri termini, sul presupposto di quello che è bene ricordare all’epoca dei fatti era solo una ipotesi di reato (e non già una certezza della commissione di un delitto), l’amministrazione militare, senza troppi giri di parole, ha pensato bene di risolvere il rapporto di lavoro con il proprio militare dipendente prima ancora di accertare eventuali sue responsabilità solo a posteriori.

Rileggendo gli atti del procedimento penale, al beneficio del dubbio, l’amministrazione sembrerebbe quasi aver privilegiato quella che potremmo in un certo qual modo definire una sorta di “certezza di colpevolezza”, salvo poi confrontarsi con un giudizio che di fatto ha scardinato le convinzioni sulla base delle quali è poggiata la decisione assunta (inidoneità al servizio) rivelatasi del tutto insussistente.

Come insussistenti si sono sin dall’inizio dimostrati i presupposti, più in  generale gli elementi di prova, sulla base dei quali essere certi di non avviare una azione penale senza senso che, il tempo e ben tre gradi di giudizio, (per non parlare dei costi ad essa connessi) hanno dimostrato essere frutto di decisioni alquanto spregiudicate.

Entrando nel dettaglio, il militare risulta essere stato indagato per la supposta commissione di un reato – ubriachezza in servizio – che per sua stessa affermazione presuppone il compimento di un servizio, senza tuttavia, quel servizio, averlo mai intrapreso.

Ed allora ci si domanda come mai sia stato possibile procedere penalmente per una simile ipotesi di reato se, sotto il profilo squisitamente oggettivo, difettava in senso assoluto la condotta materiale integrante la sussistenza del reato in questione? Ma vieppiù sfumati sembrano apparire i contorni di questa vicenda se consideriamo che il diretto superiore del militare, (colui che per intenderci ha deciso senza esitazione alcuna il deferimento del sottoposto alla Procura Militare, affinché fosse senza indugio alcuno processato per quanto accaduto) non ha mai ritenuto necessario accertare di persona le condizioni del militare che si accingeva ad incolpare.

Ed infatti, come correttamente osservato dalla Suprema Corte di Cassazione, il Tenente, che ebbe a deferire alla Procura Militare la condotta del sottoposto, non si accertò mai, de visu, di quello stato di alterazione psicofisica, indispensabile per dirsi senz’altro configurabile una simile condotta delittuosa. L’errore commesso, è possibile leggere tra le righe della pronuncia degli ermellini, è stato quello, in altre parole, di basare il proprio convincimento sul riferito di altro militare (il piantone in turno della caserma) le cui informazioni il detto piantone aveva appreso, a sua volta, dal riferito della pattuglia dei Carabinieri: dunque, in altri termini, si potrebbe sostenere un accertamento operato sul riferito del riferito, senza aver mai – il Tenente – presenziato al compimento di alcuna condotta penalmente rilevante.

Ad ogni modo, grazie alla pronuncia in esame, l’insegnamento che possiamo trarre da questa vicenda è che, se è pur vero che la condotta integrante tale fattispecie delittuosa (ubriachezza in servizio ex art. 139 c.p.m.p) può dirsi perfezionata anche quando il militare – sebbene non ancora montato in servizio – quel servizio sia comunque in procinto di intraprenderlo, è altrettanto vero che, comunque, non si possa in alcun modo prescindere da un concreto ed effettivo accertamento dello stato di alterazione psicofisica, che rappresenta in altri termini la ragione per la quale il nostro legislatore, ha inteso punire una simile condotta ricorrendo ad un precetto di natura penale.

Né è possibile, al contempo, ritenere provate le condizioni psicofisiche di un militare, si ripete sul riferito di altri militari, tanto in anticipo rispetto all’inizio del turno di servizio (nel caso in esame il superiore del militare ha ritenuto in assenza di qualsivoglia riscontro personale sussistente una riferita condizione di alterazione delle capacità di cognizione del militare ben 3 ore e mezza prima dell’inizio del turno di lavoro).

Dunque ricapitolando, sulla base delle motivazioni prospettate nel ricorso, la Corte non ha potuto fare a meno di accogliere le doglianze prospettate dal ricorrente, avuto particolare riguardo al travisamento della prova dello stato di incapacità del militare, prova travisata sia dal giudice di prime cure che da quello d’appello.

Grazie a questa pronuncia assolutoria, che ha scagionato l’imputato con la formula assolutoria “perché il fatto non sussiste”, il militare potrà legittimamente invocare il proprio diritto ad essere reintegrato in servizio, con tutte le conseguenze ad esso discendenti – sia sotto il profilo economico, ma anche in termini di progressione di carriera – con effetto ex tunc, cioè a decorrere dall’ingiusta perdita del proprio posto di lavoro.

Unica nota dolente, se vogliamo, non certo per il diretto interessato, è che il costo per l’errore di valutazione commesso dall’amministrazione in termini di pagamento di retribuzioni dovute, contributi, interessi legali e rivalutazione monetaria, oltre che per il risarcimento del danno patito e per la refusione delle spese di giudizio sostenute, graveranno, tanto per cambiare, su tutti i contribuenti, con l’ ineluttabile conseguenza di un ulteriore aggravio sulle casse, già alquanto mal ridotte, dello Stato.

LEGGI LA SENTENZA >  

 

Avv. Sebastiano Russo

Apri Chat
Contatta Ora Studio Legale Russo Caradonna!