“Normale lite verbale tra coniugi”. E’ con queste parole che i Giudici del Tribunale penale di Roma definiscono l’episodio che ha portato all’instaurazione di un procedimento penale nei confronti di un militare appartenente al Corpo della Guardia di Finanza.
Il Finanziere, con diversi anni di servizio alle spalle, è stato infatti accusato dalla moglie del reato di “tentata violenza privata” – con l’aggravante della commissione con armi.
E’ di fatti accaduto che, a seguito di un’animata discussione, il militare, sia stato incolpato (verosimilmente a causa dell’alterazione emotiva confessata nel corso dell’istruttoria dalla moglie) di averla minacciata di spararle nel caso avesse preteso la loro separazione.
Niente di più lontano dalla realtà dei fatti. Quella che è possibile definire una normale divergenza di vedute, piuttosto che una discussione (come sovente accade in casi simili) fra coppie, si è trasformata, per l’incolpevole Appuntato, in un terribile incubo durato quasi quattro anni.
In men che non si dica si è ritrovato infatti catapultato in uno scenario surreale, che ha visto coinvolti appartenenti alle forze dell’ordine (Polizia di stato e Guardia di Finanza) coadiuvati da personale sanitario intervenuto al seguito che hanno fatto tutto d’un tratto irruzione presso la propria abitazione, semplicemente perché, la moglie, come stabilito dal Tribunale di Roma in seguito, soffriva di mancanza di attenzioni.
Come ha avuto modo di chiarire l’istruttoria, la donna, che nel corso del suo esame ha alla fine ammesso di essere “particolarmente emotiva e suggestionabile”, ha confessato di aver allertato, per il tramite di un conoscente, le forze dell’ordine in preda ad uno stato di agitazione, nonostante il marito – nella maniera più assoluta – si fosse reso responsabile di alcun tipo di costrizione o minaccia.
Nello specifico, all’esito del procedimento penale poi scaturito, il militare è risultato imputato per “aver compiuto – ripetutamente – atti idonei e diretti in modo non equivoco a costringere la donna a non iniziare un procedimento civile per la separazione dallo stesso”.
Ebbene, se, da un lato, è vero che l’ipotesi contestata al militare è di aver tentato la commissione di un delitto, non essendo quindi necessario, per l’integrazione della fattispecie, il compimento dello stesso (nel caso di specie, dunque, non sarebbe stato necessario che l’uomo avesse effettivamente costretto la moglie a fare, tollerare ovvero omettere qualcosa), d’altro, in ossequio a quelli che sono i princìpi di offensività e materialità del diritto penale, non può certo ritenersi penalmente rilevante, e dunque punibile, un qualsiasi tentativo di commissione di reato, a prescindere dall’effettiva constatazione degli elementi di prova raccolti nella fase delle indagini.
L’articolo 56 del nostro Codice di rito, infatti, prevede per l’appunto che possano assumere rilevanza penale soltanto quegli atti che siano diretti in modo non equivoco a commettere un delitto.
Orbene, all’esito dell’istruttoria dibattimentale, dopo l’escussione dei testi della Procura e dello stesso imputato, la ricostruzione di quanto accaduto ha offerto un quadro che si presentato al Giudicante del tutto difforme da quello prospettato dall’accusa attraverso il capo di imputazione; in altri termini come chiarito dal Giudice di prime cure, la condotta tenuta dal militare nei confronti della moglie, e dunque gli atti che lo stesso era accusato di aver posto in essere, “difettano in modo assoluto” di quella idoneità ad incutere timore e di quella inequivoca direzionalità a costringere, che sono necessari ai fini dell’integrazione della fattispecie di reato contestata, come risultante dal combinato disposto degli artt. 56 e 610, comma 2° del Codice Penale.
In particolare, stando al convincimento del Giudicante, deve riconoscersi rilevenza dirimente alla circostanza per cui l’imputato, nell’atto di minacciare, non avesse con sé alcuna arma – e, a fortiori, al fatto che la donna sapesse per certo che non l’avesse neppure in casa – non potendo, dunque, la minaccia di fare uso della stessa, configurarsi “neppure astrattamente idonea” a provocare gli effetti previsti dalla norma incriminatrice.
In ogni caso, del tutto dirimenti, si sono inoltre rivelate le dichiarazioni acquisite in sede di esame testimoniale della moglie che hanno permesso di comprendere al Tribunale come nessun rimprovero potesse essere mosso al marito che, nella circostanza, si è ritrovato, suo malgrado, a doversi difendere da accuse poi rivelatesi prive di qualsivoglia fondamento, come premesso per stessa ammissione di colei che si professava essere la persona offesa dal reato.
Si conclude, dunque, con un’assoluzione “perché il fatto non sussiste” un procedimento penale la cui labilità, all’esito del dibattimento, è risultata evidente anche per la stessa Pubblica Accusa, che, convinta di ciò, ha per prima invocato l’assoluzione dell’imputato per l’insussistenza dei fatti.
Resta tuttavia una considerazione da fare, quella che, forse, si sarebbe potuto effettuare una più approfondita valutazione della vicenda che avrebbe evitato ab origine l’adozione di provvedimenti talmente penalizzanti come quelli patiti da un militare dall’ineccepibile stato di servizio che, del tutto incolpevolmente, per diversi anni, è stato privato dell’arma in dotazione e costretto, suo malgrado, a svolgere solo ed esclusivamente compiti di carattere non operativo.
Ad ogni buon conto, la lieta notizia è che la burrascosa situazione sentimentale pare abbia lasciato il posto ad una più serena convivenza, quella che per intenderci sembrerebbe essere (si spera definitivamente) stabilita fra i protagonisti di questa singolare vicenda.